L’ultimo accerchiamento della retroguardia degli accenti: indagine storica con inediti documenti in appendice

Lo sbaraglio è avvenuto già da qualche tempo. Era ieri o nel 1980? Stecchirono per primi Salùbre e Pudìco. Stramazzavano ancora che l’orda li calpestò nella carica. Che resta? Fra qualche anno le sdrucciole e le tronche avranno la meglio e, come le lucciole e la democrazia cristiana, spariranno le piane. Si preparino i Pasolini e gli esecutori testamentari della dizione.

 

Ma lo sterminio è più o meno generale e indiscriminato come in ogni situazione di anarchia. Viòla ammazza Vìola, Nòccioli e Nocciòli si sprangano a vicenda. Utènsile Utensìle Utensilè. Perché non si parlà tuttì così? Nell’infame storia italiana abbiamo viaggiato molto senza trovare nulla. Dateci finalmente almeno il sollievo di gridare, come sullo strapiombo di una costa: “Apocope, Apocope!”

 

Adesso i reduci stanno asserragliati a testuggine aspettando gli estremi; ed è più monotono del previsto. Nessuno se li fila, non li invitano a tenzone e neanche gli fanno le fiche. Quelli procedono come procede un nemico. Marcia meccanica incurante molto clangore poca sostanza; abbastanza comunque da far fritti gli accenti. Gli accenti preparano i rimasugli di artiglieria: balestre sinalefi dieresi. Se fossero trecento godrebbero almeno il piacere della reminiscenza letteraria. Al contrario, pochi che sono, potrebbero sfuggire; e poi dove andranno? C’è da morire di desolazione prima che di spada. Le Tèrmopilì! Nient’affatto.

 

La retroguardia degli accenti non ha Tennyson, non ha Simonida, e si inferirebbe un colpo suicida se solo trovasse un buon motivo, e invece si fa gli affari suoi e aspettando la morte gioca a golf con elmi umboni e lance. Gli accenti hanno capito. Oh la pietà di sé stessi, sprecatissima misericordia inudita. Veramente, mica c’è da stupirsene, non ne vale la pena.

 

Le avvisaglie dell’invasione le dette quella mai ben compresa sparizione di Persuadére che passeggiava per Via Omoteleuto alle otto di sera, sospettando tutti un omicidio, un pasticciaccio insomma e una marea di dolo, senza che mai il dipartimento di glottologia e i corpi sociologici investigativi venissero a capo d’un reo da additare alla folla di puristi già pronta a rivestirlo di pietra. Si derubricò tutto sotto la voce dell’incuria. Dissero quelli: dateci il dolo, dateci la preterintenzione, ma non la prosa della colpa, Cristo. Che se poi fosse davvero stata solo colpa, un tale straripamento di colpa da affogare la dizione intera in un gorgo solo, ci sarebbe da sentirsi meglio?

 

L’annichilimento non sarebbe necessario. Rintaniamoci negli Sceneggiati Anni Sessanta, proposero. La proposta agitata tra vessilliferi e parlamentini estemporanei. Le ultime sparute oasi in cui rifuggire il secolo: vecchio teatro, vecchi attori, vecchi film. La muffa è la miglior difesa. Poi? Una volta lì, aspettare giorni migliori, crioconservati in bianco e nero. Sembra attecchire, forse se ne fa qualcosa. Agli Sceneggiati, dunque? Nessuno nega ma nessuno assente. Resteranno lì, dunque. 

 

Mentre li accerchiano, barbari a dritta e a manca, rimane solo da chiedersi che diritto di vita gli accenti avessero da opporre agli invasori. Gli accenti stessi trovarono il tempo, nell’attesa, di compilare botte e risposte – fa lo stesso, a morte sicura -, e l’apologia breve della dizione procedeva in tal ordine:

Barbari: “La dizione è una convenzione.”

Accenti: “Fu scritto il Cratilo per molto meno.”

Barbari: “La dizione è antiquata.”

Accenti: “Il vintage va di moda.”

Barbari: “La dizione è fascista.”

Accenti: “Va di moda.”

Barbari: “La dizione è inutile.”

Accenti: “Marameo” 

Puerili argomentazioni scempiate dalla fretta guerresca. Con qualche indicazione di scena potrebbe quasi dar vita a un copione simil-beckettiano. Nessuno lo dice, tutti lo pensano. Finché un paio di accenti, Fortùito e Devìa, si imparruccano alla meglio e prendono a teatraleggiare. Tanto vale. Sperano come di sorprendersi a spirare, distratti e intenti nell’estemporanea calzata di coturni per ingannare sé piuttosto che la morte. Le prove procedono. Ma ecco il quid nimis: Devìa va in falsetto. È sicuramente troppo. “Cristo, un po’ di dignità in puncto mortis.” “Scusaci, ma che dovremmo fare?” Edìle non ha per lui che silenzio e gelo, prolessi di morte, sapendo infatti che sarà il primo a morire. Devìa cerca appiglio in qualche sguardo. Amàca, già maresciallo poi capitano per penuria di truppa, che lo guarda e sente che in fin di vita, quando il tempo va annodandosi e il fiato si stringe, il rancore non ha posto, si tira su e propone di redigere tre paragrafi di schietta incondizionata serietà dogmatico-linguistica. “Un trattato picciolo, dici?” Eccome. Allora accettano, scrivono e muoiono. Le cartiglie sepolte fra gli scudi.

 

Appendice: 

Testamento spiritual-fonetico della retroguardia degli accenti, articolantesi in paragrafi tre, cioè: perché la dizione, quanta dizione, e il come; ossia, scolasticamente, dell’an, del quantum, e del quomodo.

  1. Lo stato della dizione è un indice della salute della lingua. Se la gente pronuncia bene, vuol dire che c’è un diffuso sforzo di correttezza, una buona conoscenza delle origini e delle forme delle parole, una certa qual comprensione dei meccanismi della lingua nel complesso. Quando le parole diventano suoni, la lingua è persa. Con la lingua se ne va il pensiero. Senza pensiero non resta che la brutalità della materia. 
  2. La dizione va presa tutta intera. E’ inutile fare mezze misure e dire: “Così non si dice più, così non dico io, e così no.” Una volta che si inizia tanto vale finire. Se dici valùto di’ pure evapòra. Con le eccezioni sai dove inizi e non dove finisci. La dizione non tollera eccezioni.
  3. La fonte della dizione è triplice: il teatro vecchio e gli sceneggiati fino agli anni settanta, il Dizionario di Ortografia e Pronunzia, i Toscani. Ma i Toscani ne sanno sempre una più degli altri.“