L’attuale legislatura (XIX) sta discutendo da quasi due anni un progetto di riforma della forma di governo in Italia che trasformerebbe profondamente l’attuale assetto dei poteri di indirizzo politico dello Stato (Parlamento e Governo). Il disegno di legge, infatti, approvato in prima lettura al Senato (A. S. 935) e ora in discussione alla Camera dei deputati (A. C. 1921) e sostenuto fortemente dall’attuale maggioranza di governo, propone una forma di governo che l’esperienza politico-costituzionale ha sperimentato ben poche volte, ossia la forma di governo primo-ministeriale (giornalisticamente definita con l’espressione premierato).
L’idea non è nuova, ma ha comunque una storia piuttosto recente che risale alla Francia della nascente Quinta Repubblica e in particolare all’opera del politologo e giurista francese Maurice Duverger.
L’idea maturata dal nostro Autore, che si inseriva in un più ambio dibattito sulle riforme istituzionali che interessò molti esponenti di spicco della politica francese (Pierre Mendès France, Charles De Gaulle) e degli intellettuali dell’epoca (Maurice Duverger, Michel Debré, Georges Vedél), aveva come obbiettivo quello di replicare, attraverso gli strumenti della razionalizzazione, le dinamiche e i rapporti tra i poteri esecutivo e legislativo del parlamentarismo britannico, ossia il governo di legislatura.
Ma cosa si intende con governo di legislatura? Con tale espressione Duverger si riferiva a quelle forme di governo la cui architettura costituzionale e la dinamica dei rapporti tra Governo e Parlamento consentivano al primo di poter durare stabilmente fino alla fine della legislatura, evitando il continuo susseguirsi, come in Italia, di Governi fragili e limitando fortemente la nascita delle crisi extraparlamentari.
Perciò, da questo presupposto l’Autore costruì la sua proposta di riforma dello Stato francese, strutturandola su tre elementi essenziali: l’elezione diretta del Primo ministro contestuale all’elezione per l’Assemblea legislativa, l’operatività del principio aut simul stabunt aut simul cadent (questo avrebbe comportato che nel caso in cui uno dei due poteri avesse messo in crisi l’altro, automaticamente sarebbe decaduto anche l’altro e si sarebbe tornati a nuove elezioni) e la previsione di una legge elettorale tendenzialmente maggioritaria per affinché consentisse al Premier eletto di poter fare affidamento su una maggioranza parlamentare ampia e stabile.
Nonostante poi la Francia dal 1958 optò per il sistema semipresidenziale, entrando nella c.d. Quinta Repubblica, la proposta di Duverger non fu abbandonata, quantomeno a livello dottrinale, influenzando soprattutto il dibattito in Italia sulle riforme istituzionali già a partire dalla fine degli anni Sessanta.
Nomi illustri del diritto costituzionale si sono spesi a favore di questa soluzione per il nostro Paese. Uno dei primi a ritenere necessaria una evoluzione maggioritaria del nostro sistema di governo proprio guardando alla dottrina francese fu Costantino Mortati, ma possiamo anche ricordare Serio Galeotti e Augusto Barbera, che formularono precipue proposte di riforma per la democrazia italiana tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, ispirandosi proprio al pensiero di Duverger.
Sicché, quando nei primi anni Novanta in Italia scoppia il movimento referendario, accompagnato da un forte impulso di rinnovamento del sistema e della classe politica che l’opinione pubblica esigeva soprattutto a seguito dell’inchiesta Mani pulite e lo scandalo di Tangentopoli, il legislatore varò una serie di riforme volte a trasformare il sistema di governo italiano verso una direzione maggiormente maggioritaria, abbandonando la strada del proporzionalismo puro che fino a quel momento aveva caratterizzato l’ordinamento italiano dalla nascita della Repubblica.
La prima fu la l. n. 81/1993 che stabilì per le elezioni comunali l’elezione diretta del sindaco, seguita successivamente dalla legge Mattarella (l. n. 276/1993 e l. n. 277/1993), che riformò la legge elettorale per la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, prevedendo l’attribuzione del 75% dei seggi in ciascuna Camera sulla base di collegi uninominali, mentre per il restante 25% era previsto un recupero su base proporzionale.
Infine, non possiamo non citare quelle riforme legislative che hanno interessato il sistema di elezione per le Regioni italiane: dapprima la l. n. 43 del 1995 (la legge Tatarella), la quale rappresentò il primo tentativo di introdurre l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale, risultato, questo, che si conseguì successivamente con la l. cost. 1/1999, che riformò gli articoli 121, 122, 123, 125 e 126 della Costituzione.
È infatti dall’operatività del sistema elettorale e di governo delle Regioni che il legislatore si è ispirato per redigere la riforma che ora è in discussione alle Camere, e che inevitabilmente, se approvata (molto probabilmente attraverso il referendum confermativo) stravolgerà la democrazia parlamentare per come sinora ne abbiamo avuto esperienza. Un’analisi del testo della riforma potrà aiutarci a comprenderne la portata.
Il disegno di legge consta di otto articoli, i quali andrebbero a modificare gli artt. 57, 59, 83, 88, 89, 92 e 94 della Costituzione. In particolare, l’art. 5 e l’art. 7 del d.d.l. ne rappresentano il fulcro. Difatti l’art. 5 (“Modifica dell’articolo 92 della Costituzione”) al secondo comma prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri sia eletto a suffragio universale e diretto contestualmente alle elezioni per le Camere e che questo, inoltre, che non possa essere eletto per più di due mandati consecutivi, a meno che nei due precedenti non abbia ricoperto l’incarico per un periodo superiore a sette anni e sei mesi. In questo caso il limite di mandati è elevato a tre.
Il comma quattro del medesimo articolo detta invece una disciplina di principio, anch’essa fondamentale, avendo riguardo al momento elettorale nel quale sia il Presidente del Consiglio sia le Camere saranno eletti. Riservando la regolamentazione precisa della materia elettorale alla legge, il comma si preoccupa però di stabilire che questa dovrà prevedere l’assegnazione di un premio di maggioranza su base nazionale a quelle liste o candidati collegati al Presidente del Consiglio, ma, come recita la disposizione, comunque “nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche”.
Questo è uno degli snodi cruciali della riforma, che è stato definito come la “costituzionalizzazione” del premio di maggioranza. È evidente come la scelta del legislatore sia stata quella di evitare che vi sia in futuro, qualora la riforma dovesse essere approvata, il rischio che il legislatore stesso approvi una legge elettorale che vanifichi ratio stessa della riforma, quale quella puramente proporzionale e che di fatto ha portato al fallimento dell’esperimento israeliano di premierato tra il 1992 e il 2001. Ma questa scelta trova soprattutto la sua ragion d’essere proprio nella sistematica di Duverger come, in parte, abbiamo già avuto modo di vedere: più precisamente, era evidente al nostro Autore come la previsione dell’elezione diretta del Primo ministro non poteva non essere accompagnata da una legge elettorale che gli garantisse la stabilità della sua compagine governativa, sicché sembrava scontato che questa dovesse ricalcare quelle formule elettorali maggioritarie o con premio di maggioranza che favorissero l’acquisizione della maggioranza assoluta dei seggi da parte della lista o gruppo di liste che avessero vinto le elezioni collegate al candidato Primo ministro che aveva vinto, altrimenti ci saremmo trovati nell’ipotesi concreta di un divided government all’americana, o una coabitazione alla francese.
Al di là di questo, il legislatore comunque non sarà totalmente svincolato nella sua opera legislativa di redazione e promulgazione della legge elettorale, dovendo comunque tener conto, in primis, del rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche, in secundis, dell’indirizzo giurisprudenziale della Corte costituzionale, la quale in due occasioni, con le sentenze 1/2014 e 35/2017, ha avuto modo di rilevare che qualora la legge elettorale dovesse prevedere l’attribuzione di un premio di maggioranza alla lista o coalizione di liste vincitrici, non potrebbe questo essere assegnato senza che vi sia la previsione di una soglia minima oltre la quale il premio si deve attribuire.
Passando, invece, all’esame dell’art. 7 del d.d.l. (“Modifiche all’articolo 94 della Costituzione”), si può notare come in esso abbia trovato luogo la disciplina relativa al principio dell’aut simul stabunt aut simul cadent, che nel nostro paese è definita giornalisticamente con l’espressione “norma antiribaltone”.
La norma infatti prevede anzitutto che nel caso di revoca della fiducia da parte del Parlamento al Governo, quest’ultimo deve rassegnare le dimissioni e al contempo il Presidente della Repubblica procede a sciogliere le Camere. L’effetto caducatorio di entrambi i poteri dello Stato si replicherebbe anche nel caso in cui il Presidente del Consiglio decida di dimettersi e al contempo richieda (entro sette giorni dalle dimissioni e previa informativa parlamentare) lo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica (che è obbligato a disporre), come la ratio del principio imporrebbe, ma risulta temperato dalla possibilità da parte del Premier di chiedere la formazione di un nuovo Governo.
Il legislatore, infatti, nel caso in cui il Presidente del Consiglio non disponga lo scioglimento delle Camere, ha previsto che il Presidente della Repubblica debba conferire l’incarico di formare un nuovo Governo, per una sola volta, al Presidente dimissionario oppure ad un parlamentare che è stato eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio.
Nel caso, invece, di decadenza, impedimento permanente e morte del Presidente del Consiglio, il Presidente della Repubblica assegna l’incarico, anche in questo per una sola volta, sempre ad un parlamentare eletto in collegamento con il Premier.
Il legislatore ha poi voluto mantenere l’istituto della fiducia iniziale nei confronti del Governo, nonostante il Presidente del Consiglio sia eletto direttamente. Una scelta questa che evidentemente rappresenta la volontà da parte del Parlamento di mantenere ancora uno spazio di codecisione dell’indirizzo politico dello Stato e che si giustifica, evidentemente, sul presupposto della sola eleggibilità del Premier, mentre i ministri sono ancora nominati (e revocati) dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio.
Avvicinandoci alla conclusione, il disegno di legge è stato fortemente criticato in relazione, soprattutto, al ridimensionamento dei poteri che il Presidente della Repubblica dovrebbe sopportare a seguito dell’approvazione della riforma.
Al fine di evitare ricostruzioni semplicistiche che si prestano a diatribe manichee e poco edificanti, il tema merita di essere approfondito e contestualizzato. L’assunto che il Presidente della Repubblica vedrebbe una riduzione dei suoi poteri non è sbagliato, ma per essere compreso deve essere inserito nel contesto generale della riforma e della sua ratio.
Anzitutto, quali sono quelle facoltà che il Presidente della Repubblica perderebbe se si dovesse approvare la riforma? Formalmente sono tre. La prima è la nomina dei Senatori vita, la seconda la nomina del Presidente del Consiglio e infine, la terza, il potere di scioglimento delle Camere.
La perdita del potere di nomina dei Senatori a vita trova la sua ratio nell’impedire che cariche di natura vitalizia e senza alcuna legittimazione popolare possano influire nel procedimento legislativo o essere chiamati a conferire la fiducia nei confronti di Governi con labili maggioranze, come più volte si è avuto modo di osservare.
Invece, la perdita del potere di nomina del Presidente del Consiglio trova la sua giustificazione sul fatto che questi, ormai, sarebbe eletto direttamente dal corpo elettorale. Che senso avrebbe allora mantenerne la nomina presidenziale? Ma più in generale, considerando l’intero impianto della riforma che avvicina l’ordinamento italiano alle democrazie maggioritarie, come sarebbe pensabile un intervento del Presidente della Repubblica contrario alla volontà popolare? Non dimenticando, poi, che il Presidente della Repubblica manterrebbe ancora la nomina dei ministri nel momento della formazione del Governo.
Non è poi un mistero che la discrezionalità del Presidente della Repubblica sulla nomina del Presidente del Consiglio è maggiore solamente quando si ha una situazione di crisi idonea a non far generare alle forze politiche parlamentari una maggioranza di governo, mentre negli altri casi il potere di nomina consiste sostanzialmente nel nominare Presidente del Consiglio il soggetto indicato dai partiti di maggioranza. Se la riforma costituzionale si propone evidentemente di risolvere il problema della formazione di maggioranze stabili e coerenti, allora perché mantenere ancora il potere di nomina del Presidente del Consiglio in mano al Capo dello Stato?
In relazione, invece, al potere di scioglimento delle Camere, la ratio della riforma si ispira da un lato conferire maggiore stabilità all’esecutivo, dall’altro a legare la sua durata a quello della legislatura. L’unica soluzione prospettabile coerente con l’intera riforma non può che essere il trasferimento di questo potere da parte del Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio, anche se formalmente il potere rimane ancora in mano al Capo dello Stato.
Sicché, la limitazione dei poteri in mano al Presidente della Repubblica trova la sua ragion d’essere nella ratio stessa della riforma: senza tali limitazioni, essa risulterebbe contraddittoria nel perseguimento dei suoi scopi. Per il resto, è previsto che il Capo dello Stato continui ad esercitare tutte le prerogative di controllo e di contenimento della maggioranza di governo che rientrano nei suoi poteri attuali (poteri di garanzia).
Infine, non può essere dimenticato che il Presidente della Repubblica italiana rimarrà comunque il Capo dello Stato con i maggiori poteri di incidenza politica nell’orizzonte delle democrazie parlamentari.
Concludendo, il sentiero tracciato dall’attuale legislatura per conferire maggiore stabilità all’esecutivo non sacrificando la rappresentanza parlamentare sembrerebbe essere condivisibile, indipendentemente dal colore politico di chi promuove tale riforma, non dimenticando che i primi a sostenere una riforma in senso primo ministeriale italiana furono i partiti di sinistra (Pci e Pds). Certamente il d.d.l. in esame è migliorabile, ma, al di là di come la si pensi sul tema, sarebbe più opportuno, date le anomalie del nostro sistema di governo rispetto alle democrazie più evolute, che tutte le forze politiche dell’arco parlamentare partecipino a questo dibattito con più serietà e impegno rispetto a quanto sinora si è fatto, evitando di paventare rischi di autoritarismo che da tale riforma deriverebbero. Affermando, infatti, la possibilità che si realizzi ciò, si dovrebbe avere la responsabilità di affermare, al contempo, che la Gran Bretagna, ad esempio, non sia una democrazia; assunto, questo, che anche all’occhio inesperto sembrerebbe tutt’altro che condivisibile.