A lungo mi sono chiesto cosa sia l’amore. Poi non più. Non perchè avessi trovato la risposta, ma perchè avevo smesso di pormi la domanda.
È legge universale, contadina e filosofa, che la natura delle cose si coglie solo dopo averle perse. Che solo dalla mancanza, e quindi dal bisogno, nasce la piena consapevolezza del loro valore. Che vi è, insomma, una scissione temporale e logica, una frattura incomponibile, tra il momento in cui disponiamo di qualcosa, ed il momento in cui ne comprendiamo appieno la struttura, le implicazioni, la realtà. È un abisso fisiologico che separa la fruizione dalla cognizione, l’esperienza dall’intelligenza. Un difetto della ragione, una sua limitazione intrinseca e, sempre, tragica. Siamo condannati al dolore del ritorno impossibile, alla sofferenza silenziosa della perdita. A rimpiangere ciò che non abbiamo più, a ripensare a ciò che avremmo potuto avere. Et cetera, et cetera, et cetera.
È un discorso antico, che costella ed anima qualche millennio di storia della letteratura, una sorta di terapia della consolazione: la comunanza nelle sfortune elevata a canone del vissuto collettivo.
Ma no, non scriverò di questo. Se non altro, per una dispettosa tendenza alla deviazione del percorso, alla via (poco) meno calcata, a sbagliare incrocio per allungare il viaggio. All’avversione per le angosce evitabili.
Scriverò, come ho già fatto, e non mi stancherò mai di fare, del ricordo, che è il ritmo dell’amore. Del mio ricordo, di quello che tu hai rappresentato per me, sei stata per me. Dei pomeriggi in cui mi portavi a lezione di tennis, aspettandomi al bar, con un bicchiere di thè freddo, mentre leggevi il giornale. Delle estati calde passate a casa tua, dei pranzi al ritorno dalle lezioni del liceo. Delle versioni fatte insieme, per divertimento, più che per necessità. Dei tuoi brocardi, delle tue citazioni. Della cura che ti prendevi del giardino, al mare, e dell’erbario. Dei cinque euro che mi offrivi per rastrellare le erbacce. Dei film visti insieme, sempre gli stessi, nei pomeriggi pigri del weekend. Degli appunti che prendevi ogni volta che vedevi un documentario, o un programma particolarmente interessante. Di quando mi chiedevi che esami stessi preparando. Delle tue storie, raccontate senza tregua, ma che ora darei tutto per poter riascoltare. Delle visite al museo, delle tante epigrafi decifrate insieme, in tutti gli angoli di Roma. Di tutte le volte che mi hai insegnato a giocare a Bridge, e di tutte le volte che ho dimenticato le regole, per poter ricevere ancora un’altra lezione. Di tutto il tempo che mi hai dato che mi hai regalato. Di tutto il tempo in più che avrei dovuto dedicarti.
Perché il miracolo delle relazioni umane è che sono tutte diverse. Tutte fragili, passeggere e contingenti. Ognuna irripetibile, ed incomprensibile per chi non la ha vissuta. Esistono modelli e somiglianze, certo. Razionalizzazioni più o meno utili, o necessarie. Ma al cuore resta il segreto, il mistero, il silenzio. Quell’anima di verità, quel pezzetto di brace fioca e vivace che resiste anche alla morte. Nessuno può levarcela, nessuno può capirla. Vive oltre. E rende tutto più dolce.
A lungo mi sono chiesto cosa sia l’amore. Poi non più. Non perchè avessi trovato la risposta, ma perchè avevo smesso di pormi la domanda. Perché a volte, forse, possiamo concederci di rinunciare alle definizioni. Di sfuggire alla violenza delle parole. Di lasciare che le cose siano quelle che sono. Viverle. Ricordarle.
A mia Nonna, 18/06/2024-18/06/2025